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Perchè fare empowerment dei professionisti della sanità?

Sono diverse le ragioni per cui, specie nel mondo di oggi, i professionisti della sanità hanno bisogno di sviluppare maggiore padronanza nella gestione della propria attività. Ad esempio, sono alle prese, che se ne rendano più o meno conto, con la sfida della cognizione distribuita, difficile da affrontare senza il supporto di un empowerment professionale.

La nozione di cognizione distribuita al dunque è semplice, quasi ovvia. Comunemente pensiamo che ciò che riusciamo a fare con la nostra mente dipende da noi. Se un clinico fa le cose bene è perchè è bravo e nulla più. Invece quel che riusciamo a ottenere dipende dall’interazione tra la nostra mente e il mondo circostante, da come la nostra mente si rapporta agli oggetti, agli strumenti disponibili, alle altre persone. L’uso di una tabella, di un software o la discussione con un collega possono elevare in modo impressionante le prestazioni di un clinico.

Nonostante sia quasi ovvia, l’idea di cognizione distribuita si è affermata in psicologia solo sul finire del 900, ad opera in particolare di Donald Norman e Edwin Hutchins. In medicina stenta a penetrare. Si tende ancora a pensare che le prestazioni di un professionista dipendano esclusivamente dalle competenze che possiede e che derivino dagli studi fatti, dall’esperienza e dall’aggiornamento che porta avanti in proprio. Eppure non è proprio così.

Il clinico che, quando si sta occupando di un caso, accede a un motore di ricerca e consulta linee guida e sviluppi recenti della ricerca o che discute apertamente e umilmente con colleghi può esprimersi a livello più alto di chi fa affidamento solo su ciò che ha già in testa. Consultare una semplice tabella con specificità e sensibilità dei vari esami in vista di un quesito diagnostico può migliorare di molto le scelte diagnostiche ed evitare inappropriatezze. Un software che segnala le interazioni tra farmaci sulla base di database della letteratura scientifica permette di evitare di prescrivere associazioni pericolose. Oltretutto la visione della cognizione distribuita è in linea con l’evoluzione del mondo di oggi, dove il sapere scientifico cresce esponenzialmente e comunicazioni e tecnologie sono altamente sviluppate. È anche indispensabile se davvero l’operatore sanitario si impegna nell’empowerment di pazienti e cittadini e intende abbandonare il paternalismo tradizionale.

Dobbiamo fare empowerment professionale per portare i clinici a raccogliere la sfida della cognizione distribuita. Occorre sviluppare skills che servono per accedere continuamente alla letteratura scientifica e approvvigionarsi di conoscenze ogni volta che servono e in ragione delle esigenze del momento. Ci vogliono poi skills per trasferire alla pratica le conoscenze ricavate. Impegnativo è poi il lavoro di portare i clinici a sentirsi validi operatori sicuri di sè, seppure in una situazione fluida, di interazione dinamica, che li vede dipendenti dagli altri e dagli strumenti che il mondo offre loro. Si tratta di aiutarli a riconfigurare la loro identità professionale, facendoli passare - come si dice – dal paradigma professionale del possesso personale di competenze (“sono un buon professionista perchè posseggo le competenze necessarie”) a quello della distribuzione dinamica delle competenze (“sono un buon professionista perchè mi dò da fare continuamente per avere le competenze che servono quando servono”). Se oggi i clinici usano poco strumenti che potrebbero aiutarli molto è soprattutto perchè restano ancorati a una identità professionale che li spinge a fare affidamento solo su se stessi in isolamento.

Per fare un altro esempio, oggi sappiamo che la mente umana è soggetta a errori di ragionamento, caratterizzati da distorsioni sistematiche, dette bias. In linea di massima non sono un nostro difetto, ma solo il segno del fatto che la nostra (quella dell’uomo) è per natura una mente sociale, fatta per cavarsela in mezzo agli altri, non per analizzare obiettivamente la realtà. Tutti siamo soggetti a errori di ragionamento, anche i clinici (sono esseri umani), nonostante a volte nei ragionamenti clinici risultino alquanto più obiettivi degli altri. Il lavoro di portare gli operatori sanitari a essere più capaci di gestire le loro menti nei ragionamenti clinici, cominciando dal rendersi conto dei propri limiti, è un altro affascinante spazio di empowerment professionale in sanità.

Va detto poi che nel momento in cui l’operatore sanitario si impegna in programmi di empowerment di pazienti e cittadini ha bisogno a sua volta di empowerment professionale per sviluppare l’arte dell’empowerment. C’è innanzitutto da operare un cambio culturale, da lasciarsi dietro le spalle il modo tradizionale di intendere la professione per guardare alle cose con altri occhi. Questo comporta ripensare quanto interiorizzato nella formazione professionale e nell’esperienza professionale. D’altra parte la formazione professionale va anche estesa e completata, dato che per fare empowerment occorrono competenze comunicative, relazionali e sociali, di solito trascurate o non sufficientemente sviluppate nella formazione tradizionale degli operatori sanitari.

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Scritto da due studiosi statunitensi, che hanno dato un contributo decisivo alla ricerca sull’empowerment,in particolare nel diabete, il libro “The art of empowerment”  è un classico rivolto al diabetes educator.Da noi questa figura non esiste, ma diabetologi, dietisti, infermieri, psicologi collaborano a educare il paziente. Imparare l’arte dell’empowerment è comunque utile per l’intero team diabetologico  e anche per tutti quelli che circondano il paziente diabetico.
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